Ti piacerebbe essere felice senza motivo? Io ho sempre invidiato le persone serene, gioiose, radianti senza ragione. Ho sempre attribuito la mia felicità al raggiungimento di uno scopo, a una persona, a un oggetto. Poi ho scoperto il concetto di Santosha e mi si è aperto un mondo.
Cos’è Santosha
Santosha è uno dei principi della filosofia indiana dello yoga. Fa parte delle osservanze del Niyama, le prescrizioni da seguire che Patanjali ha descritto nei suoi 8 passi dello yoga degli Yoga Sutra. E’ la gioia incondizionata, la gioia senza oggetto.
E’ la felicità genuina, la felicità vera, non legata all’ottenimento di qualcosa, è indipendente e senza forma. Non è una formula magica, ma si ottiene con il lavoro su sé stessi e con la comprensione e il rispetto di tanti altri elementi. Tra questi non può mancare l’accettazione e l’accoglimento della realtà, il concetto di fiducia, il non-giudizio legato al senso di unicità e l’abbandono degli attaccamenti.
Come si traduce
Santosha deriva dal sanscrito “sam” e “tosha”, letteralmente “completo” e “accettazione”. Dobbiamo considerarla sia un’attitudine personale sia uno stato di pace profonda. Attraverso la pratica e appunto l’attitudine di Santosha, ci si libera dagli attaccamenti, dai desideri e dalle invidie.
Praticare Santosha significa quindi:
- accogliere: le proprie emozioni, i propri pensieri, quello che accade a noi e agli altri. Questo non comporta necessariamente l’accettazione passiva di tutto quello che arriva; accogliere significa prenderne consapevolezza, comprendere e non giudicare.
- lasciar andare, lasciar essere: una volta che abbiamo accolto quello che la vita/l’universo/il destino/Dio ci ha messo davanti, sappiamo che fa parte di quel momento della nostra vita e con fiducia ci abbandoniamo a quello che è (IT IS what IT IS) – Isvara Pranidhana
- sviluppare compassione, empatia, rispetto, gentilezza
Come sviluppare Santosha
Come dicevo prima non c’è niente di magico. Per riuscire a metterlo in pratica bisogna davvero comprendere che non potremo mai essere totalmente felici, sereni e appagati se leghiamo il nostro concetto di felicità ad un oggetto materiale, transitorio, che può esserci o non esserci. Sia perché potrebbe cambiare nel tempo, sparire, danneggiarsi, sia perché una volta che abbiamo quello nascerà in noi il desiderio di un nuovo oggetto della nostra felicità. Entriamo in un circolo vizioso senza fine in cui non ci accontenteremo mai.
Quando attribuiamo la nostra felicità a un oggetto o a un traguardo (per oggetto intendo fisico, umano, immateriale, etc.), stiamo delegando la nostra pace interiore ad un’entità esterna, lavandocene le mani. In questo modo però non avremo mai quanto desideriamo, se non per brevi momenti.
Per trovare quella gioia senza oggetto, invece, dobbiamo lavorare su noi stessi e in primis capire che siamo più di quello che facciamo, di quello che pensiamo e di quello che possediamo.
C’è qualcosa in noi che va oltre, non siamo solo un corpo fisico che ha bisogno di cibo e acqua. Non ci è richiesto per vivere serenamente l’attaccamento agli oggetti (50 paia di scarpe, 3 macchine, 60 videogiochi) né dobbiamo per forza essere in gara per “fare” (il giro del mondo, tutte le discipline sportive al meglio, etc.).
Per vivere serenamente dobbiamo liberarci dagli affanni, dagli attaccamenti mentali e materiali e andare dentro, andare in fondo fino al raggiungimento della nostra essenza, di quella che molti chiamano anima.
A cosa porta
Nella nostra espressione con il mondo ci rende sereni, in pace, ben disposti. Ci permette di sviluppare un senso di soddisfazione senza motivo, costante o per lo meno frequente. Permette che le cose accadano, che vadano come devono andare, permette di affrontarle seguendo il nostro vero istinto.
Santosha permette di migliorare la relazione con noi stessi, di ascoltarci andando oltre le fluttuazioni della mente – CITTA VRITTI. Accettare i propri limiti di questo momento ed equilibrarci, sintonizzarci sul qui e ora.
In questo modo sapremo che abbiamo già tutto quello che dobbiamo avere per essere felici. Accoglieremo con un sorriso tutto quello che arriva e ce ne rallegreremo, ma non saremo dipendenti da questo. Non avremo aspettative, desideri da realizzare per poter tirare un sospiro di sollievo. Vivremo nella calma e nella presenza, liberandoci dalle paure.
Grazie a Santosha ci si può sentire completi con quello che si ha, liberi da tutto, puri. Si riesce a far proprio il concetto che non siamo i nostri pensieri, non siamo il nostro lavoro, non siamo le persone che ci circondano e non siamo nemmeno il nostro corpo. Questo è il modo reale per liberarsi dallo stress!
Santosha nel buddismo
Per capire meglio il contesto in cui si inserisce Santosha e il significato e i risvolti pratici, vi riporto l’introduzione di un bel libro scritto da Chogyam Trungpa “La via della liberazione della sofferenza“:
Siamo nati come esseri umani, in quanto dotati di sufficiente consapevolezza, e dobbiamo conservarci tali e mantenere alta la nostra umanità. Lo facciamo respirando, così che il nostro corpo abbia la giusta circolazione e le pulsazioni di cui ha bisogno per sopravvivere. Lo facciamo mangiando cibo come fonte di energia e indossando abiti che ci proteggono dalle intemperie. Ma non possiamo conservare noi stessi solo in questi modi, ovvero mangiando, coprendoci con i vestiti e dormendo così da svegliarci allo spuntare del giorno e procurarci nuovamente il cibo per nutrirci. C’è qualcos’altro che accade oltre quel livello: emotivamente sentiamo di aver bisogno di accettare e rifiutare.
A volte ci sentiamo molto soli, altre proviamo una sensazione di claustrofobia. Quando ci sentiamo soli, cerchiamo i nostri compagni, amici e amanti. Ma quando ne abbiamo troppi, ci sentiamo soffocare e ne respingiamo alcuni. A volte stiamo bene: ogni cosa si è evoluta nel migliore dei modi per noi.Abbiamo compagnia, abbiamo i vestiti che ci tengono caldi, lo stomaco pieno e abbastanza da bere per non sentire la sete. Ci sentiamo soddisfatti, ma ciascuna di queste soddisfazioni può venire a mancare. Potremmo avere compagnia, ma non un buon pasto; potremmo avere un buon pasto, ma nessuno con cui condividerlo. Talvolta il cibo è buono, ma abbiamo sete. A volte siamo contenti di una cosa ma non di altre. È molto difficile tenere insieme la miriade di cose che continuano a succedere, con i relativi alti e bassi. È davvero difficile. Ci accorgiamo che è una vera e propria impresa, un progetto non da poco, mantenere tutto al livello ideale. È quasi impossibile preservare un costante senso di felicità.
Pur avendo soddisfatto alcune delle nostre esigenze, continuiamo ad avvertire ansia. Pensiamo: “In questo momento il mio stomaco è pieno, ma dove mi procurerò il prossimo pasto quando sarà di nuovo vuoto, e avrò fame? In questo momento sto bene, ma la prossima volta che mi verrà sete, dove troverò una goccia d’acqua? Ora sono perfettamente vestito e mi sento a mio agio, ma cosa farò se verrà a far freddo o caldo? Ora sono pieno di amici, ma se non mi faranno compagnia, dove ne troverò altri? E cosa farò, se la persona che adesso mi tiene compagnia decide di lasciarmi?”Nella vita ci sono tanti tipi di puzzle, e le tessere non combaciano perfettamente. E anche se fossero perfettamente combinabili – cosa altamente improbabile, una possibilità su un milione, o meno ancora – saremmo comunque in ansia, e penseremmo: “E se qualcosa andasse storto?” Così, quando siete al meglio e le cose vi soddisfano, ecco che siete ancora più in ansia perché potreste non avere la continuità. E spesso vi sentite ingannati dalla vita perché non avete la possibilità di sincronizzare migliaia di cose alla volta. Sorge allora il dolore automatico e naturale, e la sofferenza. Non è come il dolore di un mal di testa o il dolore che avvertite quando qualcuno vi dà un pugno nelle costole: si tratta di ansia, e è uno stato davvero ossessionante. Tenderemo a dire: “Ho sistemato tutto, e sono abbastanza felice così. Non ho bisogno di cercare qualcosa che mi faccia sentire meglio”. Eppure siamo sempre in preda all’ansia.
A parte il nostro semplice funzionamento, il modo in cui fissiamo con lo sguardo una parete o le montagne o il cielo, il modo in cui ci grattiamo, il modo in cui sorridiamo timidamente e contraiamo il viso, il modo in cui ci muoviamo senza motivo, insomma: il nostro modo di fare qualsiasi cosa è segno di ansia. La conclusione è che ognuno di noi è nevrotico, e la nevrosi crea malessere e ansia, e quell’ansia di fondo ci accompagna tutto il tempo. Allo scopo di correggere quest’ansia di fondo creiamo situazioni opprimenti: ricorriamo a violente aggressioni, alla passione intensa, all’orgoglio smodato. Ricorriamo a quelli che definiamo klesha – emozioni conflittuali o confuse – che distraggono la nostra ansia di fondo e al tempo stesso la ingigantiscono. Facciamo ogni tipo di cosa per via di quest’ansia di fondo, e ci troviamo perciò in situazioni sempre più difficili e dolorose. Così, l’aver espresso aggressività e concupiscenza ci lascia un senso di malessere, e non solo: ci fa provare un’ansia ancora più forte. Questo schema si ripete in continuazione.
Siamo in uno stato d’ansia, e ogni volta che cerchiamo un modo per sentirci meglio finiamo per stare peggio. Potremo sentirci meglio in un particolare momento, se facciamo a modo nostro assecondando la nostra indole, ma poi viene il momento di una delusione terribile e di un terribile dolore. Questo ci dà una strana sensazione, ma sarebbe più preciso dire che ci fa sentire malissimo. E non basta: trasmettiamo lo stesso malessere anche agli altri. Non possiamo praticare la passione, l’aggressività e l’ignoranza solo su noi stessi; le riversiamo anche sugli altri e finiamo sempre col ferire qualcuno. Così, invece di avere soltanto la nostra personale ansia, provochiamo negli altri uno stato di ansia ancor peggiore. Generiamo la loro ansia, e essi stessi la producono, e finiamo così in quello che è noto come “il circolo vizioso del samsara”. Ognuno non fa altro che provocare sofferenza in tutti gli altri.
È ormai da tanto tempo che partecipiamo a questo progetto tremendo, a questa costante sventura, a questo terribile sbaglio, e lo stiamo facendo tuttora. Nonostante le conseguenze, nonostante i messaggi che ci ritornano indietro, continuiamo a farlo. A volte lo facciamo mantenendo un contegno impassibile, come se nulla fosse. Ricorrendo a terribili inganni creiamo il samsara – dolore e infelicità per il mondo intero, compresi noi stessi – ma ne usciamo comunque come se fossimo innocenti. Ci definiamo “signore” e “signori”, e diciamo: “Non commetto mai peccati e non creo mai problemi.
Sono solo una persona normale, bla bla bla”. La valanga dell’autoinganno e il tipo di esistenza che esso crea sono davvero scioccanti.
Potrete chiedervi: “Se ciascuno di noi è coinvolto in questo particolare programma o progetto, chi potrà mai vedere il problema? Non ci si potrebbe adeguare tutti, così da non vederci l’un l’altro in questo modo? Così ci potremmo solo compiacere di noi stessi e della nostra valanga di nevrosi e non ci sarebbe alcun altro punto di riferimento al di fuori di questo”. Per fortuna, o forse purtroppo, c’è una persona che ha compreso che avevamo un problema. Questa persona era nota come il Buddha. Ha visto che qualcosa non andava, ci si è dedicato ed è andato oltre. Ha capito che il problema poteva essere ridotto, e addirittura completamente annullato, perché ha scoperto come prevenirlo alla radice. All’inizio di tutto, la cessazione è possibile.
La cessazione è possibile non solo per il Buddha, ma anche per noi. Stiamo cercando di seguire il suo sentiero, il suo approccio. Nei duemilaseicento anni trascorsi dal suo tempo, milioni di persone hanno seguito il suo esempio, e hanno avuto successo in quanto stavano facendo: sono riuscite a diventare come lui. Gli insegnamenti del Buddha sono stati tramandati di generazione in generazione, così che ora e qui noi abbiamo quelle informazioni e quell’esperienza. Possiamo praticare il sentiero della meditazione nello stesso modo del Buddha e dei nostri antenati. Il modo in cui praticare ci è stato trasmesso al fine di superare l’ansia, l’inganno e la nevrosi. Abbiamo il metodo e la possibilità di riuscire.
Spero di averti fatto comprendere questo concetto un po’ più nel profondo e spero che anche tu approfondirai e cercherai di metterlo in pratica.